Edizione 2009 – Poesia Edita

Primo classificato

Franco BuffoniNoi e loro (Donzelli Editore, 2008)

In Noi e loro è rappresentata la «cronaca» − a dirla con l’autore − di «due esclusioni», di «due disappartenenze», drammaticamente vissute dall’omosessuale e dall’extracomunitario, che costituiscono altrettanti casi fortemente «rappresentativi e speculari» in merito al tema della condizione del «diverso» nell’intollerante società italiana di oggi. In particolare, nel libro di Franco Buffoni la realtà psicologica e sociale dell’omosessuale risulta articolata nel registro del «noi» e del «loro»: di un «noi» inteso come teatro di un «fisico» abbandono dell’io al puro miraggio omoerotico, cui fa da scenario il ricordo di un Maghreb rivissuto al presente con totale adesione emotiva e percettiva; e di un «loro» costituente l’àmbito della cruda percezione di un’esclusione, di una «disappartenenza», appunto, violentemente imposta al protagonista lirico da un sistema di consuetudini e di valori tesi a privare il «diverso» del più elementare diritto all’esistenza. È precisamente quest’ultima − impegnata, «civile» − declinazione del significato di «omosessualità» a rendere strutturalmente necessario, per contrasto, il registro discorsivo sensualmente disinibito e partecipato che anima le liriche raccolte nella prima sezione del libro. Perché la proliferante ricchezza di colori e di forme connessa a quell’«interagire in modo gioioso e candido» del protagonista con i nativi del Nordafrica circoscrive, a ben vedere, una dimensione immaginaria e memoriale: luogo di una lacuna, di una sostanziale mancanza, se non vero e proprio spazio del desiderio del protagonista. Il motivo del «diverso» impersonificato dall’omosessuale si intreccia, specie nella seconda parte del libro, a quello veicolato dalla folla dei reietti, esuli clandestini condannati a scontare, troppo spesso a prezzo della vita, un destino di «esclusione» radicale. La zona di maggior contatto tra le due declinazioni del concetto di «diverso» è ravvisabile nella lirica Due trafiletti, ispirata a due tragici fatti di cronaca: al «balzo» dal treno, acceso di folle speranza, compiuto da un «clandestino curdo» nei pressi di Ventimiglia e a quello, disperatamente suicida, di un adolescente lanciatosi da un cavalcavia di Milano per sfuggire alle persecuzioni dei compagni di classe a causa della sua effeminatezza. Omosessuali e extracomunitari, da ultimo, finiscono per confluire nell’orizzonte odiosamente anonimo e eticamente aberrante del «loro»; ma non senza essersi prima impressi come indelebili zone d’ombra sullo specchio di una rappresentazione lirica precisa e tagliente, affidata a un’attitudine versificatoria tesa all’aderire, con ironica e implacabile meticolosità, tanto agli stati più rarefatti e «gentili» della coscienza quanto a quelli più ideologicamente connotati, propri dell’intellettuale impegnato. Ne deriva, anche formalmente, un tipo di poesia mossa dall’«ipotesi», fermamente sostenuta da questa Giuria, di una «mondializzazione, dove il ‘noi’ e il ‘loro’ dovrebbero sparire».

Francesco Carbognin

 

*

Una lunga sfilata di monti
Mi separa dai diritti
Pensavo l’altro giorno osservando
Il lago Maggiore e le Alpi
Nel volo tra Roma e Parigi
(Dove dal 1966 un single può adottare un minore).
Da Barcellona a Berlino oggi in Europa
Ovunque mi sento rispettato
Tranne che tra Roma e Milano
Dove abito e sono nato.

 

  

 

Secondo classificato (ex aequo)

Domenica Mauri – Per interno (Manni Editori, 2007)

Per interno, di Domenica Mauri, ci parla del morbo di Alzheimer come se fosse il morbo di Alzheimer a parlarci. Un’operazione di questo genere si pone quasi come un unicum nel panorama della poesia contemporanea, dal momento che l’uomo – o per meglio dire la sua coscienza, il suo sentire intimo, in breve il lirismo – assume un ruolo secondario al cospetto della manifestazione del fenomeno. I sintomi organici che colpiscono il corpo umano si presentano nel corpo del testo nella forma di sintomi stilistici, consentendo al lettore curioso di trarre almeno due conclusioni. Anzitutto che come per  comprendere un evento nel suo complesso è consigliabile mantenere una distanza di osservazione adeguata, così per sviscerare l’oggetto letterario spesso è opportuno uscire dal cerchio della letteratura: la compresenza di una sintassi franta nello sviluppo del testo con continue ripartenze come correlativo della malattia (p. 31: Il gesto che improvviso si ferma (dove | i fondamenti) (le ragioni). | Mano. Unghie. Vene. Pelle. Mano | rattrappita adunca rapace. Mano | che annaspa), e di un approccio specialistico nella definizione degli stati in corso (p. 29: Sappiamo che è una patologia progressiva. | Che inizia con poco ma si conclude con | grandi perdite. Cognitive e anche | funzionali.) offrono una visione che si stacca dalle limitazioni del filtro soggettivo, collocandosi da entrambe le parti della barricata. In secondo luogo che la scansione narrativa sui generis dell’intero libro, attraverso la messa in scena di proiezioni differenziate, permette naturalmente un processo di immedesimazione. Il paradosso apparente, che è lo scarto reale, scaturisce dalla costruzione analitica del linguaggio: è proprio l’operazione rigorosa di azzeramento sintattico, di spoliazione dal superfluo, a condurre l’opera a un approdo addirittura orfico (p. 60: Un ammasso informe. Non se ne viene a capo. Le cose | sono mescolate e unite. Non intendono dividersi.| Chiedere quando si è cominciato a dimenticare. Provare a dare | un nuovo nome a ogni cosa.).

Luca Rizzatello

 

 

È uscito con l’idea di essere trasparente

È uscito con l’idea di essere trasparente.
Ha percorso il suo trapezio di strade.
Niente equilibrismi solo
un mimetizzarsi tra i vicoli le pietre gli spigoli
le rientranze delle vetrine.

Era un pomeriggio qualsiasi. E c’era gente c’era folla
ma la sua trasparenza ha retto nessuno l’ha visto
e non vedendolo qualcuno l’ha urtato lievemente
lo ha spinto da un’altra parte
ma così – senza volerlo.

Poi la folla è cresciuta a dismisura. Si è fatta fiume di gente
erano corpi. Erano corpi che venivano senza sosta
senza ostacoli verso il suo corpo.
Ha dovuto fare molta attenzione per non avere
troppi danni troppi urti troppe spinte.
E gomitate nello stomaco
sui denti.

A un certo punto avrebbe voluto
parlare gridare farsi sentire. Ma ormai nessuno lo vedeva.
Il grido di un fantasma sarebbe stato
del tutto illogico inverosimile certamente
inopportuno.

 

  

 

 

Secondo classificato (ex aequo)

Andrea Venzi – Il sentiero degli alberi morti (Mobydick, 2007)

Il sentiero degli alberi morti è un’opera caratterizzata da forte coerenza tematica e stilistica e da ricorrenze lessicali che concorrono a creare un’atmosfera densa e organica. In Luce sporca, IX, 1-4, si legge: Nessuna torbida afflizione, solo mesto | vagabondaggio notturno. Tu non sei/ il solitario di Providence né/ la tua tomba sarà a Baltimore, versi che richiamano i celebri Io non Enea, non Paulo sono;/ me degno a ciò né io né altro ‘l crede (Inferno, II, 32-33), in cui Dante manifesta la propria esitazione ad intraprendere il viaggio ultraterreno che lo condurrà alla conoscenza e quindi alla salvezza. Sviluppando il parallelo, nei versi citati Venzi si misura con altrettanti – e solo in apparenza lontanissimi – modelli: H.P. Lovecraft (il solitario di Providence) e E.A. Poe  (sepolto proprio a Baltimore); autori che, attraverso il racconto di incubi e ossessioni, hanno esplorato nel profondo la psicologia umana e le contraddizioni della loro epoca. L’andare incessante dell’insonne, nel buio e nel freddo dell’inverno che si avvolge su se stesso – e sono ricorrenti le figure che alludono a un perturbamento del tempo meteorologico ed esistenziale – in una ambientazione che è allo stesso tempo moderna (scalo ferroviario, pub), gotica (vetrata gotica/del duomo; nella cripta nera) ma anche primitiva e archetipica – costellata di acque ferme e proliferanti e vegetazione proteiforme – appare come un tentativo estremo di espiazione attraverso la perdita dell’io. Se la comunicazione con il mondo esterno è compromessa – i suoni sono sempre troppo forti o troppo deboli per essere intesi chiaramente, o sussurri vaghi o clangore – rimane intatta la visione: nell’annullamento della gerarchia tra la sfera umana e la sfera naturale, il soggetto che osserva è a sua volta osservato (si notino gli occhi di gomma degli alberi abbattuti; gli occhi nerofumo del lago) da una vita che lo vuole estraneo per essere ammirata.

Francesca Gironi

 

 

XXVII

 
Luna di ghiaccio
sui villaggi. Chiazze di luce
sotto i declivi blu notte
all’orizzonte, sotto il cielo
grigio diretto verso l’alba.
Luci mosse dal respiro del silenzio,
dal gelo indurito sulla strada
vuota. Giù dal Cimone
alle campane mute d’una terra
nuova ai miei occhi torturati.
Finchè il silenzio domina
lo spazio sotto il cielo
dirigo lo sguardo
verso finestre cieche
dove s’addensa la luce
di paesi sconosciuti.
Osservo da mesi questa vita
che mi vuole estraneo
per essere ammirata.
Irrigidito nel freddo
mi prende un convulso
battere di denti. Rientro,
torno al riparo dietro
la finestra, mi allontano
dietro le palpebre d’un possibile
sonno mentre le luci dondolano
come fuochi ancorati alla montagna
con le ultime energie notturne.
Ultimo o primo sogno d’un’incerta
vita anteriore, perso in labirinti
Labirinti dove scricchiolano
pareti di ghiaccio. Le luci
muoiono, resta solo il freddo
e la nebbia che respinge
il giorno fino alla luna
gialla che affonda
all’orizzonte verso
il sentiero degli alberi morti.

 

 
 

Terzo classificato

Paolo Ottaviani, Geminario (Edizioni del Leone, 2007)

Nelle Note dell’Autore su cui si chiude il libro di Paolo Ottaviani, Geminario viene definito come un «poemetto bilingue», composto da «duplici canti o gemini (da cui il neologismo Geminario)» dei quali il primo si presenta vergato «in un idioma medievale umbro-sabino che, pur con profonde modificazioni e invenzioni linguistiche, riecheggia il nostro volgare due-trecentesco»: il volgare delle Origini della lingua italiana (quello del Ritmo Cassinense e del Ritmo bellunese), il volgare della lirica siciliana (di Iacopo da Lentini, di Giacomino Pugliese) e di quella siculo-toscana (Chiaro Davanzati), il volgare della poesia religiosa (Jacopone da Todi) e di quella comico-realista (Cecco Angiolieri). Il secondo canto di ogni gemino, invece, si presenta scritto in una lingua caratterizzata dall’adibizione di una folta serie di echi letterari, da Leopardi a Pascoli, a d’Annunzio; da Montale a Pasolini, a Caproni e a Zanzotto. I «duplici canti», apparentemente rappresentanti l’uno la traduzione ‘libera’ dell’altro, costituiscono, a ben vedere, realtà testuali autosufficienti, derivate dal sottoporre un medesimo motivo alle specifiche restrizioni lessicali, semantiche e metriche della lingua ogni volta utilizzata. In particolare, i testi in lingua «originaria» allineano quartine di senari a rima alterna (abab); quelli in lingua «originata», invece, terzine pseudo-dantesche di endecasillabi (aba). Il raffinato esercizio stilistico praticato da Paolo Ottaviani trova un corrispettivo sul piano contenutistico, là dove il doppio stile impiegato introduce un duplice sguardo, linguisticamente straniante («diplopico», direbbe Andrea Zanzotto), gettato, di volta in volta, su situazioni autobiografiche, su avvenimenti storici nazionali (rapimento e assassinio di Aldo Moro) e internazionali (l’invasione sovietica dell’Ungheria) e su alcuni fatti rappresentativi della storia artistica e letteraria europea (la pubblicazione de Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, la vicenda poetica di Giorgio Caproni, la morte di Eugenio Montale e di Pablo Picasso). Il linguaggio grottescamente bifronte impiegato da Ottaviani è il vero e proprio soggetto lirico di questa poesia, volta a restituire un’immagine ‘realistica’ del cittadino italiano, costituzionalmente bilingue anche nel terzo millennio. La Giuria di questo Premio, pertanto, riconosce all’autore di Geminario il merito di aver ribadito, in sede lirica, la «duplice ricchezza» cui attinge l’italiano letterario di ogni epoca, proponendo il superamento della «disputa sulla dignità o persino sul diritto all’esistenza dei dialetti» sulla base della convinzione che «i volgari» si siano «depositati nel fondo della memoria» e che si siano «trasmessi come una sorta di eredità biologica» fino a noi.

Francesco Carbognin

 

 

Gemino quarto, I

Ru sòle de svinciu
co’ l’oro e ra muffa
su ‘n curtile brinciu
de monache, zuffa

que sbotta, ‘ntostata
ra née – oh quanta! –
su titti acuetata
ru cielu remmanta

su née renenque
strai pe’ strai se pierdû
domentranca nenque
scappenno despierdû

ri lacci e tu stretta
a me intirizzitu
roscia forosetta
que te sughi ru itu

tra mutuli sozzi
de née spalata
convursi senghiozzi
su notte strinata.

E viè d’Ongaria
notisia que ‘nvade
ra sellajeria
passenno cuntrade

dovise se matre
oppuro matregna
sia Rùsia e ru patre
tra cumìsi e legna

que je sbara ra strai,
ri squarti d’azzuro
ne’ ri lienti viavai
de’ cieli fegurô

mandrie e ri cavaji
nuvole a capezza
derentro cristaji
de nova dubbiezza

oriente occidente
a orlo de sera
inniti de gnente
pe’ atra primavera.

(Gemino quarto, II)

 

Tra mura gonfie, crepate per muffa,
giunge traverso il sole nel dorato
chiostro, mugugni di monache, zuffa

 che tra bimbi improvvisa esplode e neve
– oh quanta! – calma e ghiacciata sui tetti
quando dal manto del cielo altra neve

sopra la neve torna a nevicare
e nel bianco svapora strada e cielo
mentre continua ancora a nevicare,

con le scarpe slacciate, infreddolito
ti stringo, rossa bambina ansimante
che un po’ t’acquieti succhiandoti il dito

tra le montagne di neve spalata,
ma un pianto irrefrenabile ritorna
mentre discende la notte brinata.

Dall’Ungheria per ignote strade,
fin dentro la bottega del sellaio
giungono voci da quelle contrade

divise se matrigna o cara madre
sia la Russia. Si sbarra il sentiero
da una trave gettata contro il padre,

mentre d’un tratto le nubi si squarciano
irrompe il sole azzurro sulla neve,
giganteschi soldati in cielo marciano

e al trotto vanno mandrie di cavalli
che trascinano nuvole a cavezza
dentro quei dubbi in forma di cristalli

tra oriente e l’occidente nella sera
s’innalzano nitriti contro il nulla
come promessa d’altra primavera.

  

  

Segnalato

Cristina Babino – La donna d’oro (peQuod)

La dichiarazione di Ezra Pound per cui “ogni opera d’arte è insieme libertà e ordine. Risulta perfettamente evidente che l’arte è sospesa tra caos, da un lato, e meccanicità, dall’altro” mette a fuoco i presupposti che sembrano sorreggere l’impianto testuale de La donna d’oro, di Cristina Babino. Si tratta di un libro da leggere tenendo presente la consapevolezza dell’Autrice nei confronti di una scrittura che si muove su livelli differenti (formali, narrativi, retorici), allo stesso tempo fattore programmatico per la costituzione globale dell’opera e operazione stilistica ambiziosa al momento del confronto con il lettore. L’architettura complessiva si discosta da un possibile effetto Spoon River (con il quale condivide di fatto soltanto la tecnica della narrazione postuma in prima persona) anzitutto per il carattere monografico del tema, sostenuto dalle due appendici Cronologia della vita e delle opere principali e Principali riferimenti bibliografici, che informando sulla vita della protagonista – e di riflesso su quella dei personaggi di volta in volta deuteragonisti -, amplificano lo spettro delle chiavi interpretative dell’opera. Va tuttavia messo in evidenza come tale documentazione non comprometta la possibilità di una lettura del testo svincolata dalla necessità di un serrato riscontro biografico, grazie all’utilizzo di espedienti stilistici propriamente finzionali (lo scavo psicologico accurato accompagnato da digressioni immaginifiche, i richiami puntuali alla tradizione, la connotazione dei caratteri attraverso il solo nome di battesimo), che contribuiscono a renderla, all’occasione, semplicemente una storia. La costruzione metrica è frutto di una perizia tecnica inattuale, se confrontata con i canoni della recente produzione poetica nazionale; a scanso di equivoci va notato come La donna d’oro non sia un libro esplicitamente neometrico: le ricorrenze (per lo più variazioni sulle misure di dodecasillabo e tetradecasillabo) sembrano mirare più ad una omogeneità nella pulsazione ritmica – il peso specifico che il singolo verso può assumere in rapporto all’intero organismo formale – che ad una regolarità sistematica nel conteggio sillabico. 

Luca Rizzatello

 

L’incontro di Tamara de Lempicka con Gabriele D’Annunzio

I calici alzati in tripudio d’onore, tra
tutti più in basso brillava quello in mano
del ser Comandante: nemmeno fingeva
di trattenere le dita appoggiate ai miei
fianchi: parlando di genio e maniera
mi travolgeva, fosse stato più giovane
e bello l’avrei pure pensato in divisa
abbracciare l’impresa di Fiume come
eroe fascinoso di guerra e fumetto.

L’invito a seguirlo al Vittoriale allora
mi prese come onda d’urto e d’effluvio,
profumo Acqua Nuntia che gli fioriva
copiosa la pelle di scritte segnata dal tempo.
Presto giungemmo ai cancelli
della villa sul lago: s’aprirono ali d’airone
su un regno incantato e segreto, quale
grazia serbata di splendida donna
che infine si fa possedere. Portata
per mano per giri di stanze e di valzer
mi lasciavo condurre dal duce poeta:
da scrigni e armadi uscivano tesori mai
visti, mostra privata di stoffe e di pietre
preziose, dote e distesa fortuna di Khan.

Promise una posa per farne ritratto,
così dopo mesi trascorsi d’autunno
a Firenze copiando i cartoni distratti
dal nume Pontormo, annunciai al vate
il ritorno con lettera ardente di brama
a svelare il mito e il mistero dell’uomo
che insieme vedevo piccolo e sommo.
Quale figlia di Iorio senza riparo giunsi
di nuovo a turbare le stanze solenni
del ser Comandante. Non fu che congiura
in quei giorni a sedurmi giovane perla
venuta dal freddo. La complice ancella
mi accolse con cauto disprezzo, scrivendo
tra appunti di serva ognuno dei passi che
l’amante padrone bramoso muoveva dietro
me Dafne la slava da cogliere, lui Apollo
canuto e invecchiato, aggrappato a corpo
di donna già fattosi albero e fronde. (…)

Appena partita Donna Maria triste consorte
che pronto era, e caldo, il letto per me
nella stanza lussuosa di Leda, dove inciso
nel legno un cigno ingannava bugiardo
e incantato la fanciulla ritrosa del mito.
Quella notte dalla camera chiusa agli affondi
del vate, sentivo rincorrersi nel corridoio infiniti
gli spasimi di lui e della serva sua amica.
Il mattino seguente poi scorse tra sudici
giochi e insinuazioni, e di nuovo scese
dal cielo la notte e ancora mi venne a cercare.
Lo lasciai scivolare sopra vesti di seta
a cogliere i brividi che per estensione
di corpo sfilavano multipli e freddi.
Tre giorni trascorsero lenti in un rito
d’assedio animale: l’ultima notte le vesti
mi tolse, agile e duttile col sesso senile
ed eretto ovunque mi scorse la carne.
Al disgusto mio scritto sul volto
infine s’arrese: io offesa lasciai finalmente
la villa, stavolta per non ritornare.

Segnalato

Francesco Tomada – A ogni cosa il suo nome (Le Voci della Luna)

Per comprendere quale sia l’importanza che la procedura della nominazione riveste nella cultura occidentale basti pensare da un lato alla tradizione biblica, dall’altro a quella psicoanalitica: il nome rende evidente, individua ciò che prima era indefinito. Nel primo componimento Francesco Tomada definisce il terremoto del ’76, a cui ha assistito da bambino, una cosa sconosciuta | il contrario del vento, mostrando come il definire sia un atto di volontà che differenzia e separa e, separando, tenti di ordinare l’indistinto e il caos. Nelle prime due sezioni – Altri luoghi e Io vivo qui – si leggono diversi toponimi (Beirut, Bihac, Karlovac, Belgrado, Palestina), in una sorta di mappa diacronica di luoghi che sono stati o sono scenari di guerra e di fronte ai quali l’intenzione di ristabilire un ordine si presenta con un’urgenza ancora più pressante (Topolò, valli del Natisone, pt. II. Il partigiano | italiano ignoto viene tradito di nuovo tutte le volte che qualcuno | legge il suo non-nome. \ Allora prendiamo un pennarello nero indelebile | e sulla pietra scriviamo in maiuscolo, | scriviamo in tanti, ciascuno con la sua calligrafia e con l’orgoglio | di chi per settant’anni ha dovuto firmarsi con la X | ARCANGELO FABIANI). Il nesso tra nome, memoria e identità risulta evidente tanto nel  trattamento della storia collettiva quanto in quello della storia familiare; la scrittura misurata di Tomada descrive gli eventi con grande forza comunicativa, avvalendosi di uno stile discorsivo sostenuto sottotraccia da un uso cosciente di procedure retoriche ricorrenti – parallelismi, simmetrie, antitesi – che mettendo a fuoco le intuizioni offerte da accostamenti stranianti fanno emergere una predisposizione per lo studio dei rapporti mutevoli tra le cose.

Francesca Gironi

 

 

1920

C’è questa foto del millenovecentoventi
dove si vede distrutta la casa che adesso abitiamo
una granata italiana l’aveva colpita
proprio la casa proprio la camera
dove poi abbiamo concepito i figli
ma di quei momenti nostri non ci sono immagini
e la vita quando esplode dentro non fa nessun rumore
e anche io ti ho posseduta così si dice
ma in realtà non ho posseduto niente
sei come questa terra dove per lasciare un segno
è inutile combattere bisogna appartenere
diventare umili e abitare con pazienza
come fa il colore su una rosa.