Edizione 2010 – Poesia Edita

Primo classificato

Ugo Gaiato – I frutti verdi della magnolia (Edizioni del Leone, 2009)

In I frutti verdi della magnolia Ugo Gaiato persegue con irreprensibile coerenza ciò che rappresenta, sotto il profilo stilistico, la più intima cifra della propria scrittura: un’acutissima sensibilità, in grado di captare i minimi sommovimenti provocati dall’attrito tra coscienza e psiche, tra l’intelligibilità del discorso memoriale (storico) e l’ardua perscrutabilità delle singole occasioni emozionali e percettive che di tale discorso hanno costituito l’origine e il fondamento. Ragioni ritmiche e costrizioni sintattiche che caratterizzano il Libro vi testimoniano la presenza, sotterranea e incoercibile, di una pulsione alla narrazione degli eventi vissuti, in forza della quale i ricordi si avvicendano come le Fotografie ‘di lei sulla neve di lei al mare | in vestaglia col gatto‘, alternandosi con le grigie insorgenze del «tempo vacuo» della quotidianità. Ma questa tendenza all’allineare gli eventi vissuti risulta metodicamente frustrata dai continui riferimenti alla necessità psichica che li ha istituiti in quanto tali, cioè alle ragioni simboliche (‘il lato inespresso delle fotografie‘) per cui tali eventi si sono rivelati determinanti per la stessa esistenza del soggetto lirico-narrante. Accade, allora, che percezioni ancestrali legate al paesaggio natale del protagonista, registrate con meticolosa precisione lessicale (le ‘rade erbe strappate nel gerbido‘; gli ‘equiseti‘; ‘l’esile trapelare del rivo‘), irrompano nel campo della rappresentazione poetica giungendo a contagiarvi ogni altro affioramento memoriale e affettivo, incidendosi nel tessuto lirico come ‘ferite sovrapposte‘. Ne derivano «poesie» come ‘precise scansioni, gesti affondati | in alcove di muschio‘, in cui il piano del racconto appare destabilizzato da incessanti fenomeni di vegetalizzazione dell’elemento umano (‘sono apparsi sulle braccia i resinosi | tatuaggi del pino’) e di reciproca contaminazione tra realia di diversa natura. La pulsione al narrare risulta, così, forzata al misurarsi con le verticalità abissali di un versus colto e intelligentemente costruito, formalmente radicato in quel territorio della lirica del Novecento che tutto ha scommesso sull’estetica della metamorfosi e dell’analogia. In particolare, lo stile di Gaiato attua un’ibridazione di circostanze letterarie ‘consanguinee’, praticando un’originale trapianto di suggestioni cronologicamente lontane nell’orizzonte della poesia moderna e contemporanea. In I frutti verdi della magnolia, pertanto, immagini araldiche attinte dal simbolismo francese convivono con lessico e strutture apposizionali di stampo ermetico (Quasimodo, in primis), con l’arbitrario colorismo di Rimbaud e di Trakl e con soluzioni sintattiche dell’ultimo Sereni; così come l’incandescente analogismo di matrice surrealista (Eluard, Lorca, De Libero) si ibrida con la libido metamorfica che permea lo stile di Elena Švarc e con la notturna terribilità incombente nei versi di Alejandra Pizarnik, per dar luogo a effetti ‘estatici’ e ‘sapienziali’ rapportabili alla lezione di un Luzi e di uno Zanzotto.

 Francesco Carbognin

  

Trappola per topi

Il biscotto sul freddo piatto metallico
orrendo invito, la tensione rotta delle vertebre
una morte istantanea, non presagita, senza fughe né
fedeli sensazioni del nulla
mentre il muso puntava l’oscurità
il cibo speciale dell’autunno.
Mi dico: è naturale eliminare gli escrementi di topo
in cucina, chiudere fuori la coltre di nebbia
grigie sagome furtive con i nidi incuneati
fra le balle di paglia
o sotto i recipienti dell’acqua.
Preservare equi spicchi d’intimità.
E la carne immobile divampa nella mia desolazione
la casa una palafitta su distese di giunchi
e orde fameliche dall’odore lievemente umano.
Femmine rapite per l’ebbrezza notturna dei fuochi
sono un pianto profondo di topolini –
avvinghiate a qualche radice, un’alcova con albeggianti voci –
il silenzio stellare, chiome attorcigliate a branchi
di nuvole in fuga.

 

 

Secondo classificato ex aequo

Alessandra Conte – Breviario di novembre (Raffaelli Editore, 2009)

Alessandra Conte coniuga con bravura e originalità suggestioni di diversa ascendenza letteraria: dalla forma-breviario praticata da insigni predecessori (quali il Rilke di Das Studenbuch) alla scrittura violentemente espressionistica della tradizione mistica, che In Breviario di novembre risulta metodicamente rovesciata secondo modalità mai gratuitamente sarcastiche o blasfeme. A ben vedere, infatti, ciò che tradizionalmente costituisce , presso i mistici, il linguaggio dell’esperienza, in questa poesia si fa linguaggio di una realtà altra da quella abitata dalla scrivente: dal momento che ciò che manca alla protagonista di queste liriche è precisamente l’esperienza di un reale dotato di un senso pervasivo, non distorto e vanificato dalla prevaricazione di convenzioni culturali indifferenti al vivere e al soffrire materiali di chi esiste qui e ora. Le invocazioni qui raccolte, a ben vedere, sono pronunciate da una «suora bambola» che patisce fin nei recessi della propria anima e del proprio corpo l’horror vacui originato dalla radicale distanza da Dio. Ma di questo Padre assente, così come della Madre e del Cristo invocati, l’io lirico auspica non tanto la protezione o il dono della Grazia, quanto l’ex-sistenza, l’uscita dal ruolo di deus ex machina che a essi tradizionalmente compete: una vera e propria incarnazione, cioè, intesa come un compromettersi con la vita umana, un esporsi materiale al rischio e al dolore dell’esistere (‘Sporgiti signore dal balcone | del corpo‘; ‘Prega gli iperparadossi | che si rendano materia‘). Tali figure del sacro, pertanto, si trovano in questo Breviario costrette ad abdicare alla loro stessa consistenza simbolica, declinata in forme violentemente materiche per una sorta di transustanziazione rovesciata indotta dalle preghiere del soggetto lirico: ‘dio madre di terra‘, ‘vergine delle vergini | rea dei mille peccati‘, ‘Signore dei rifiuti’, ‘signore | delle chiavi perse e delle risposte sbagliate‘, ‘Madonna delle madri controvoglia‘, ecc.

Francesco Carbognin

Là dove le magnolie tardano a venire

Là dove le magnolie tardano a venire,
madonna petrosa, fioriscano le tazze da tè,
sul lato est della scuola, e cantino in frantumi.
E si avveri il sogno di abbracciare la carpa
a nuoto, là dove la nana e il famiglio hanno rotto
i vasi sacri del cuore bucato. O madre che sei madre
e signora elegante, madonna che sei mia e donna
prendi la mano della matrissima cagna madre,
che curi le urne funerarie, canopi fittili a doppia testa
che stanno nella sala grande.

 

 

Secondo classificato ex aequo

Valeria FerraroLettera da Carlsbad (Atelier, 2010)

Lettera da Carlsbad è un canzoniere che segue una scansione non cronologica, e la sequenza dei testi si dispone sulla base di una titolazione alfabetica; questo espediente, che giustifica la giustapposizione di componimenti temporalmente distanti, evidenzia la finzionalità che sta dietro ad ogni operazione di scrittura come vita, offrendo di facciata l’aspetto della cronaca autobiografica ma privilegiandone in fondo la declinazione narrativa. Ogni quadro viene reso attraverso il filtro del ricordo, e in questo senso lo scavo psicoanalitico viene azzerato a vantaggio di una rappresentazione di oggetti archetipici, in cui la saturazione coloristica e verbale si dispone lungo l’intero sviluppo del verso, generando un senso di viscosità antinaturalistica. Non sarebbe facile – se mai lo si volesse fare (ma non lo si vuole fare) – individuare la linea di demarcazione che separa la trascrizione di un immaginario personale dalla traduzione di reminescenze letterarie. Nel primo caso la formula è quella di una poesia d’occasione sui generis, in cui la scissione tra l’io che scrive e l’io che vive si manifesta attraverso l’applicazione indistinta della prima persona singolare tanto alla figura dell’Autrice, quanto a quella di un soldato, quanto a quella di Nosferatu. Ciò che fa da collante, che omogeneizza l’eterogeneità delle voci, è l’elevato controllo tecnico, raggiunto tramite un processo di stilizzazione che asciugando l’occasione di partenza da ogni intimità, lo colloca su un piano espressivo che se non è surreale è certamente a lato del realismo, consentendo un viraggio dell’esperienza in fatto artistico. Nel secondo caso, la citazione di una quartina appartenente a Brumes et pluies di Charles Baudelaire è seguita da Alle prove, testo d’apertura del libro, in cui l’ascendenza baudelairiana è esplicita: si confrontino in modo del tutto parziale i costrutti Con voci più amare | più strette, dal sottofondo d’archi, si ripete (vv. 5-6) e è debole ma improvviso l’allarme iniziale, | come macchia di vino rovesciato nel clamore | dell’estate che si fa viola lentamente (vv. 27-29) con Ma il verde paradiso degli amori infantili, | le corse, i baci, i fiori raccolti, le canzoni, | i violini che vibrano di là dalla collina, | e a sera, sotto gli alberi, il vino nei boccali (Moesta et errabunda, vv. 21-24; traduzione di Giovanni Raboni): l’Autrice dimostra di problematizzare il rapporto con la tradizione, integrando una naturale acquisizione timbrica con un gusto citazionista che porta a reagire i materiali in maniera contraddittoria, e quindi feconda.

Luca Rizzatello

 

La distruzione

La distruzione è una buona compagnia.
Fa uscire liberi sulla strada senza vento.
Quanto vento c’è stato in poesia.
Ho deciso, non mi accontento.
Cancello quello che ho appena scritto,

disvello. Così sono ripagata interamente.
Ho compiuto qualcosa di più
che scrivere semplicemente. La pagina
abrasa. Come tornare a casa una sera
da un viaggio estenuante e da vita vera.

Ho amato i vecchi bauli di parole.
Non conoscevo i trucchi del mestiere.
Il giusto contrasto, l’esatta sfumatura.
Specchio di lame opache, confitte,
anche le cose scritte facevano paura.

La distruzione è una buona promessa.
Ad essa la vita vera si confessa.
Può scavare spazio la pagina annerita.
Torna sporca la pioggia di primavera.
Il mondo non è mai stato una scacchiera.

Quanta pulizia nel mondo della poesia.
Il foglio sazio non è più riflettente.
Non mi accontento più di una prigione
di specchi spenti. L’ordine del bianco,
la promessa del nero, tornano equivalenti.

 

 

Terzo classificato

Stefano GuglielminC’è bufera dentro la madre (L’arcolaio, 2010)

C’è molto, nel titolo dell’opera di Stefano Guglielmin, a partire dal coraggio di un lemma, bufera, di evidente e spericolata memoria montaliana, troppo osteso perché possa trattarsi di richiamo passivo o di rincorsa epigonale. E vi è la scandalosa collocazione di quell’evento chiave entro una madre che con altrettale evidenza è ur-mutter, ominosa scaturigine della dissonanza che attraversa la raccolta. L’intero percorso, scandito da 39 quadri con incipit aperto a monte (verso la madre, si direbbe, o discesi da nodi innominabili), ordisce due livelli. L’uno, implicito e però poetante, nasconde quell’io che si affaccia in limine, rimandando circolarmente all’intero tragitto (con attitudini da nuovo angelus novus) per migliori letture della dissonanza-consanguineità col fratello (soggetto dell’opera e del suo catalogo di vitalissimi scelera), e pasce, trascegliendovi verticalmente, dall’ordinario su su sino ad intertesti e calchi, una lingua tesa a tradurre la vita che svacca (vedi l’attacco della quintina 34, come dire il 34° del Furioso ariostesco – col medesimo uso riservato alla bufera, insomma). L’altro livello, letterale ed esplicito (l’Egli del libro), a sua volta ribalta l’una sull’altra, cortocircuitandole, le due facce di un vitalismo inarginabile (‘la spalancherà, distesa sul bordo del mattino‘) e del suo aborto produttivistico (e la cosa invoca un poco il fantasma di Pound). Leggiamo: ‘[…] travasa parole / per imporre cose per cavare contanti | che fanno spesa per dire io sono il signore dio mio | forcina del mondo. non sempre ha ragione, tuttavia‘. Ma il fratello buono ci campa, sugli scelera del degenere: ne trae la lingua per dirli e come ogni lettore (assai più presente alla fabula di quanto non paia), agi ed opulenza materiali. La bufera sta qui: nel riscatto che non si dà ragioni sufficienti; nello stile spinto bensì in alto, ma per il racconto di un moto a perdere; nell’origine oscura (la madre) da cui discende lo scandalo di un trionfo mondano quanto mai sterile e implosivo (e redditizio). Così, la bufera travolge il libro stesso, pur lasciandone intatto il profilo di qualità: manufatto (buon sangue non mente), capo d’opera, compiuto e quasi classico nella forma (l’ampia versificazione si squilibra pretendendosi a tratti claudicante, ma senza pregiudizio all’udibilità dei metri canonici che incastona). E classico perché non si dà apocalisse, nei pressi del congedo (la cruciale quintina 34), ma un composto rimando per ipotetiche verso strade non percorse: potenziale, seppur rimpianta, redenzione della [S]storia. Servirebbe forse un ippogrifo, per ridare ragione e ragioni al cavaliere d’industria debordante o al suo doppio sconcertato, poeta figlio d’identica madre: servirebbe la Luna.

Luca Pasello

9.

sul volo, che curva in due il globo, immagina mosè
slabbrare l’acquario. al selvatico, cede il suo quarto migliore
e ci poggia la bocca: a sharm non dorme mai solo. mentre gioca
ha una marea di amici che gli batte nel petto, una cagnara
festosa, eccitata e lontana. al ritorno la sfama.

  

 

34.

se dalla luna, lui, portasse indietro un grammo di ragione
o il suo lume. se studiasse i modi finiti e infiniti di spinoza
e vi scavasse dentro una pozza di vita vera. se insabbiasse
il perno che lo lega alla pancia del denaro. se ogni tanto
si girasse come l’angelo di klee. se inorridisse.

 

Segnalato

Paolo Di Silvestre – Le parole necessarie (Albatros Il Filo, 2009)

Che si appunti sui luoghi dell’esistenza quotidiana o che si apra sul paesaggio, lo sguardo dell’autore si dimostra particolarmente attento alle proprietà della luce (Ambulatorio n. 5, vv. 3-5, ‘tentacolare dedalo | dalle plastiche chiare | e con luci di plastica‘; Pioggia, vv .9-10, ‘dalla luce di bronzo | densa e ostile. Ma luce‘; Riposo!, vv. 1-2, ‘Festa. M’acquieto all’ingrigita luce | del pomeriggio tardo‘; p. 35, v. 5, ‘Di flaccida luce il corpo delle ore.’). Le gradazioni di intensità e matericità della luce determinano la qualità e la profondità della percezione e dell’esperienza; essa irradia gli oggetti, li plasma e allo stesso tempo li deforma (p.25, vv. 3-5, ‘[…] fra colonne di luci acuminate | nei tetri palazzi caleidoscopici | dove bagliori e dolori s’incrociano | e s’accalcano ingordi di promesse.’). Oltre ad assumere un evidente valore espressivo la luce si conferma come elemento simbolico fondamentale. Di Silvestre si discosta dalla tradizione occidentale per cui la luce rappresenta prevalentemente la polarità di segno positivo opposta alle tenebre; a p.21, (vv. 3-4) l’autore mostra come, oltre un determinato punto dello spettro, la luminosità diventi disumano bianco | grezzo e indistinto lucore […] che appare là dietro, senza far cadere un segno. Scrive a tal proposito Marco Dotti nel saggio Luce nera (Medusa, 2006): Materia senza luce e luce senza materia rappresentano per l’occhio umano una sola fonte di oscurità. L’attenzione, vista la profonda dissimmetria, verrà allora portata sulle cose e sul loro statuto ambiguo. In Tramonto d’inverno è la notte a essere invocata (‘Ecco finalmente un giorno stantio/ lasciarsi obliare nel rogo fulgido/ e breve del suo congedo!‘). Il libro si rivela così una pacata meditazione sul tempo: la variazione luminosa non si limita a definire lo spazio, ma conduce alla consapevolezza che il mutamento, nella sua ciclicità (Acqua, ‘Arrivano alla fine! | Sparute faville di neve. | […] Poi lì, appena adagiate | ritornano acqua’), è un farmaco – palliativo o allucinogeno – che può offrire consolazione solo se si accetta di contemplarlo.

Francesca Gironi

Mattino

Non è pioggia, né nebbia;
è tempesta sordida d’acqua ferma.
Fa viscido un mattino
che non crede di sfuggire alla notte
smarrito in questa stanza difettosa
per apatiche precipitazioni.
Sfila la quotidiana transumanza
intanto, ratta e ottusa
di noi e di macchine gorgoglianti.

Dita nere d’alberi addormentati
sotto i tralicci fitti
trattengono distanze
impongono misure
prima che lo sguardo s’annichilisca
prima che la direzione si svuoti.

 

 

Segnalato

Massimo Scrignòli – Vista sull’Angelo (Book Editore, 2009)

Vista sull’Angelo è un racconto in versi, un percorso di meditazione e di ricerca costruito simmetricamente in cinque sezioni di cinque componimenti ciascuna (solamente l’ultima ne conta nove). Alcune immagini simboliche si rincorrono, sapientemente disseminate, all’interno delle sezioni conferendo al racconto in versi un carattere fortemente coeso. La luce come forma di nutrimento, connotata da una dimensione verticale, è il primo di questi tasselli simbolici che si ritrovano nei vari componimenti (pp. 13, 27, 29, 31, 33). Si rimane in un campo semantico, e simbolico, affine con le immagini dell’anima e dell’Angelo: l’anima è la protagonista di questo percorso di meditazione che dovrebbe condurre al dolce trasumanar della vista | su questa terribile felicità (p. 77) e l’Angelo diviene il trait-d’union tra la dimensione umana e quella più intimamente spirituale (p. 25, Poiché l’anima conosce bene l’uomo | l’Angelo parla con lei soltanto | quando l’uomo dorme). In questo percorso l’Autore cerca di codificare l’indecifrabile simbolicamente rappresentato dall’immagine del triangolo: il luogo della fenice è un triangolo (p. 13), Entrando nel triangolo ti fermi e pensi | LA VITA (p. 15), Entrando nel triangolo domanderai | se la vita è ancora viva (p. 75). Non a caso verbi come intuire, decifrare, tradurre, unire divengono elementi cardine all’interno di un percorso che anela a nuove forme di conoscenza (p. 13 e 33). La parte autobiografica emerge nella descrizione dei luoghi della città (il ciliegio secolare del chiostro di S. Antonio in Polesine, le Mura degli Angeli, la Casa del Boia, la Prospettiva di San Giorgio) e della natura con riferimenti al Grande Fiume e al suo delta. Numerosi sono i rimandi ad autori quali Ungaretti (p. 31), Blake (p. 37), Gustav Mahler (p. 41), Eliot (p. 51), Shakespeare (pp. 65-66), Dante, la cui presenza, nell’epigrafe iniziale, marca in modo inequivocabile il racconto in versi. La lettura in chiave simbolica è anticipata dalla citazione dantesca: […] e fa’ ragion che sia | la vista in te smarrita e non defunta.

Valentina Merlini

 

 

La Casa, 9.

Il vento adesso è il confine

illude in avanti i giorni
li risveglia in altre case.

Da mille anni l’albero delle pagode
osserva l’Angelo seduto sul silenzio
abbracciato alle ginocchia, arenato
nel segreto delle sue ali.
Ma quali sono i limiti di un segreto?

Né ombra né inverno. Forse soltanto
l’alfabeto infedele perduto
a nord, un soffio antico

dolce trasumanar della vista
su questa terribile felicità.