Mario Santagostini – A. (LietoColle)
Un periodare dichiaratamente e formalmente umiliato, psicologicamente e grammaticalmente franto, contratto e scarnificato fino all’ostensione delle giunture logiche e sintattiche, costituisce il tracciato dell’arduo itinerario intrapreso dal protagonista lirico di A. di Mario Santagostini. È un percorso che conduce, leopardianamente, alla presa di coscienza del vero, sviluppandosi tra le squallide evidenze («tetti di lamiera / e flex frantumati», «carcasse di conigli», «ferrame, latta, / stock di vetro compresso»…) in cui prende forma l’immagine di un esistere anonimo, ridotto alla mera sopravvivenza percettiva, in cui le stesse illusioni che informano lo sguardo dell’uomo consentendogli di conferire un senso all’esistenza risultano precipitate nell’infimità di «roba putrida, / materia più usurata». «Pochi i rimpianti per noi, / le sole creature che muoiono / senza motivo»: perché è una parola desublimata, aliena da ogni forma di narcisistico compiacimento e tematicamente sottratta alla pur minima presunzione metafisica, quella in cui le postcreature di Santagostini pronunciano il proprio «Adhaesit pavimento anima mea», sacrificando persino l’estrema illusione, quella che dà valore alla poesia, alla coscienza del destino che rende l’uomo così simile alla pietra. Ma è proprio in virtù di quella consapevolezza che l’«aderire» dell’io al «pavimento» della propria insignificanza consente l’instaurarsi di una pur minima distanza prospettica, anche se nella forma di un irrazionale moto d’«ansia», di fisiologica insofferenza, di «astio per l’inanimato». Aggirandosi tra i relitti di ciò che fu vita (nulla di più distante da ciò che sarebbe lo stesso «Dio / allo stato puro, / senza tratti di stragismo») e che pure persiste, per loro tramite, a predicare all’uomo la mortalità di quanto pertiene all’essere vivente, il protagonista lirico di A. giunge a rinvenire una paradossale forma di durata e di resistenza, apprendendola quasi per viam negationis dalla stessa dolorante inerzia delle cose che «Non vivono, reagiscono», intorno a lui. È «Incredibile», allora, «quando / qualcosa non succede: / sembra l’infinito».
Francesco Carbognin
(Postcreatura)
Sono nella spianata
attorno ai palazzi Gescal. Più avanti,
gli hangar degli autobus.
Girano anche delle capre.
Non annusano nulla,
segno di astio per l’inanimato.
Afa, agitazione nelle vespe.
Incredibile, quando
qualcosa non succede:
sembra l’infinito.
Fabrizio Parrini – Anghelos/Il cercatore di Angeli (Il Vicolo)
Anghelos/Il cercatore di Angeli di Fabrizio Parrini è una raccolta di dichiarazioni testimoniali ad opera di figure angeliche. Se il denominatore comune dei testi è la natura angelica del soggetto narrante, il paradosso è che l’intero libro sembra interrogarsi su quali siano il significato e le implicazioni del possedere una natura angelica. Il tempo del racconto è immerso in un limbo che porta il presente ad una orizzontalità smisurata, tuttavia sono i riferimenti puntuali – a luoghi d’ogni sorta, es. le vie delle capitali le stazioni le cattedrali i campi d’orzo o di concentramento; a avventimenti d’ogni sorta, es. l’incarceramento di Verlaine l’esplosione di una mina antiuomo o della bomba atomica la strage di Beslan la cena solitaria di un bugiardo – che consentono lo scatto drammatico. Così il tema della recita è ricorrente, e percorre entrambi i sensi; ma se per un verso si tratta di una messinscena esplicita (p. 13: ‘e le ragazze recitavano parti di angeli’), per l’altro ogni simulazione d’umanità non è mai priva di conseguenze, secondo un’escalation che va dallo smascheramento non previsto (Diario di un Angelo, 2.: ‘Mi ero vestito da uomo | per passare inosservato. | La mia ombra di falco mi ha tradito.’), alla perdita progressiva della propria condizione (Diario di un Angelo, 5.: ‘«Soffrirai Cassiel – mi diceva – di un dolore aspro | che solo gli uomini conoscono». | […] Qui sulla terra si dimentica facilmente. | Quando agiterai le braccia per tornare | alla sommità dell’aria, ti mancheranno le forze. | Soffrirai di una nostalgia | che solo gli uomini conoscono.’) alla rinuncia deliberata (L’angelo delle Baracche, 4.: ‘Allora ho deposto i miei incarichi | ho chiesto di non dover gettare più rose per le strade, | di non sorvegliare più il cammino del giorno. | Sono entrato a poco a poco in una terra brulla, | senza miracoli.’). Sono queste incrinature a un sistema che si vorrebbe sorretto da leggi armoniche, questo vizio che consuma il sangue (L’angelo gabbiere, Uno), a dare profondità a ciascun episodio, convertendo una potenziale collezione di autoepitaffi in un organismo epico.
Luca Rizzatello
(L’angelo Orfeo)
La pioggia che accarezza i nostri prati è morbida,
sfiora i ciliegi con la grazia di una tortora.
In una primavera come questa
manca solo un angelo come me,
dai capelli bianchi e arruffati.
Io sapevo parlare degli occhi
della mia vecchia Euridice,
poi quella voce roca…
«Non ti voltare mai, qualunque cosa accada».
L’inverno ha smarrito la sua forza,
intorno a noi crescono i tulipani.
Il mio cuore si fermò all’improvviso.
Anche il cuore dell’airone può schiantarsi in volo
ed io tornai a casa in un lenzuolo bianco.
Sopra le colline il cielo è un soffitto di cenere,
ma i ricordi sono caldi come il cuore di un cervo.
Silvia Zoico – Famelica farfalla (puntaacapo)
«La parola salva […] la parola condanna», si legge tra le illuminanti Note dell’Autore su cui si chiude la Famelica farfalla di Silvia Zoico: un «unico poema» scandito in quattro «movimenti» che ospitano i monologhi di altrettanti sopravvissuti alla Shoah, a diverso titolo compromessi con la biografia della scrivente. E in effetti, se «da quei luoghi non si torna», come afferma l’Autrice, ricordando la dichiarazione di Shlomo Venezia in Sonderkommando («Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio»), è proprio nella sfasatura tra il verbo che salva e il verbo che condanna che Silvia Zoico pare rinvenire il luogo su cui fondare l’autorità di una parola diversa: voce di una memoria non pacificata e irrisolta, emersa prepotentemente dall’abisso di silenzio scavato dall’interdetto adorniano («Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie») per una sorta di deiscenza storica, come per la riapertura spontanea di una ferita precedentemente suturata o il riaffiorare di un «trauma», a dirla con Andrea Zanzotto, che «nella sua “trascendenza”, nella sua riluttanza a ogni conversione espressiva, nella sua assoluta chiusura di vissuto, pone come ludica, in un certo modo, qualunque espressione se raffrontata alla sua violenza esistenziale». Tale si configura l’affilatissima ironia che a partire dallo stesso titolo di Famelica farfalla (grottesco rovesciamento dell’«angelica farfalla» dantesca) percorre da cima a fondo la raccolta, giungendo a incidere nel profondo delle strutture morfologiche e sintattiche l’«eloquio torrenziale» (M. Ferrari) in cui si esprimono quelle «fameliche […] voci dei morti». È un’ironia violentemente bifronte, che investe l’intero poema costringendone a una lettura letterale e rovesciata tanto i contenuti (spinti fino all’esibizione cavillosa, addirittura scabrosa, dei dettagli delle vicende narrate) quanto gli elementi della forma dell’espressione: in particolare, quelle ottave tragicamente epiche di endecasillabi che comprimono, conferendovi la granitica e enigmatica durezza da monumentum, l’affiorare sanguinolento di una memoria linguisticamente e stilisticamente stratificata, screziata e quasi sfigurata dalle fratture che i relitti di formule yiddish, di polacco, di francese, di gergo militare, parafilosofico e parascientifico in tedesco (Volksdeutchen, Mischilingen), addirittura di veneziano petèl, procurano al discorso lirico di Silvia Zoico, imprimendovisi come irredimibili stigmate testuali.
Francesco Carbognin
*
[…] Et qu’il le dépose à sa porte /
N’est plus qu’un jouet dans sa main… è certo
comprensibile, mon psyco, la turbo
al punto che la diagnosi è disturbo
da personalità multipla, ma
io Louise, sono medico e insegno
Odontoiatria all’Università
di Parigi… la tavola di legno
al collo dei morti con scritto URRAH
ICH BIN WIEDER DA gliela consegno,
signor Giudice, da parte di chi
non è tornato… come me, Louise
Landau, numero tatuato sotto
il cerotto anallergico sul braccio
preservato leggibile e incorrotto
per l’appello nella neve…
Giuseppe Grattacaso – Confidenze da un luogo familiare (Campanotto)
‘È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, | guardare da terra il grande travaglio di altri’ (Lucrezio, De rerum natura, II, vv. 1-2, traduzione di Luca Canali); In Confidenze da un luogo familiare, Giuseppe Grattacaso sembra guardare da terra il proprio grande travaglio. Il tempo, referente primo e oggetto di disputa, subisce un processo di reificazione; l’assunzione delle prerogative proprie dello spazio consente all’Autore di allestire degli ambienti-contenitore in grado di ospitare il decorso delle sue riflessioni: ‘È terra di passaggio | il corridoio, luogo di tutti perciò luogo | di disimpegno, tenebroso antro, | teatro della pausa e dell’incanto, | mercato di merce brutta | e varia, pausa non voluta e necessaria’ (p. 39). La pausa nel corso del libro viene presentata nella doppia accezione di stand-by forzato (p. 17: ‘Ora che sono finalmente pronto | e di certo capisco più di prima, | perchè mi vedo destinato alla panchina?’) e di momento privilegiato (p. 21: ‘il bello | della commedia resta l’intervallo.’); la lotta che viene intrapresa con il tempo del corpo è associabile estensivamente al concetto di entropia (p. 25: ‘Ora | se metto tutto a posto proprio ora | e con fiducia butto tutto quanto | è superfluo o scaduto o non è nato | che già dimenticato e con fiducia | credo persino all’annullamento | di ogni confusione, in realtà | scopro che non c’è stato cambiamento, | gli oggetti a posto restano un momento | poi si ribellano a tanta crudeltà.’), un passaggio necessario per il raggiungimento dello stato di meraviglia, dell’incanto(p. 66: ‘Il cielo e le sue stelle ed io di sotto, | sguardo ridotto, tutto è senza scopo. | Più vedo e più mi sfugge ogni costrutto: | perchè zirlano i tordi, fiorisce il pungitopo?’). Parlare del tempo fingendo che il tempo non esista, o meglio che esista ma sia privo di un senso di marcia esclusivo (p. 38: ‘Un treno parte o arriva, fischia il treno | nessuno parte nessuno arriverà. | Oh le stazioni nelle notti timide, | le luci ruvide nell’eternità.’, ma anche p. 28: ‘Ti sforzi tanto, ma è tutto già accaduto, | non resta che rincorrere il passato, | cercare indietro il solco già segnato, | obliterare il biglietto che è scaduto.’), e farlo con magistrale garbo.
Luca Rizzatello
*
Le trattorie a Trieste dove ancora
friggono alici e il cameriere in bianco
ha il passo stento e stenta a ricordare
se sono sarde o alici, è in alto mare,
le trattorie a Trieste, non si sbaglia,
sono un rifugio, forse il fritto sbarra
l’accesso alla tempesta,
forse perché la poesia onesta
ha casa solo qui, tra queste
strade dove fa festa
il vento e non delude
la luna, madreperla tra le nubi.
I commensali sono gente oziosa,
aspettano qualcuno che non viene,
non viene mai, perchè è solamente
prosa la vita, continuo girotondo,
mano per mano ma non ci conosciamo.
Parla la sposa al tavolo sul fondo
con un fantasma in veste da marito,
abita un mondo schivo ed infinito,
la cipria copre il tempo in qualche ruga,
da sé distante, da se stessa in fuga,
la sposa è nella rete, pesce, acciuga.
Sezione Poesia inedita
Giovanna Gelmi – Silloge senza titolo
‘La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll’invenzione delle macchine, nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini’. (Luigi Russolo, L’Arte dei rumori, 1913). Nella silloge di Giovanna Gelmi la ricorrenza di espressioni che appartengono alla dimensione sonora (es. fischio del compressore, si affanna la centrifuga della lavatrice, l’autobus già stride e frena, l’autoradio a cantare) amplifica la vividezza delle descrizioni oggettuali (Marciapiedi sconfitti: ‘Un altro ombrello abbandonato | tra un’auto e il cordolo è di bambina, | rosa; chiuso, rattrappito, ti pone gentile | il quesito del perchè sia lì, tra gli altri oggetti, | seminati tra i passanti come salme | di qualche umanità approssimativa.’) connotando efficacemente lo scenario urbano nelle sue contraddizioni. L’udito in quanto senso a distanza funziona da innesco per un secondo livello d’immaginazione; analogamente a quanto accade al soggetto narrante, anche il soggetto narrato è indotto dalla fonte sonora a immaginare un altrove, un luogo mentale da contrapporre al disagio del qui e ora. Il silenzio viene più volte invocato come tregua, come condizione in cui può compiersi la meraviglia, intesa come stato di massima ricettività di fronte alle minute manifestazioni naturali (Luglio assolato: ‘e nel subito di una pausa di rumori | lasciare che le cicale | ci eternino il respiro.’) che sopravvivono al degrado dell’ambiente circostante.
Francesca Gironi
Luglio assolato
Ogni strada percorsa ci conduce
alla confusa aritmetica dei minuti,
poi all’assolo di un corvo,
al getto consueto dell’autolavaggio
della stazione di servizio:
identiche sfere di appartenenza
nell’assopimento di luglio.
Gravitando sul fischio di un compressore,
il pendolo è triangolo di lontananze
cui si anela. Fuori il caldo assale i vetri;
vi slitta o vi si imprime come ventosa
di un sussurro assolato,
silenziosa sanguisuga di attese,
di un rintocco che dica un’ora
deliziosa di fresche lusinghe,
a margine di ogni parlato
che giunge inconsistente dal giardino.
L’aereo che passa sopra le case
ora ha un tuono rassicurante,
un moto che spera ancora
in qualche ronzio di erbaggi.
Ci addita il rischio, l’energia
dell’ancòra dove andare
e nel sùbito di una pausa di rumori
lasciare che le cicale
ci eternino il respiro.
Roberto Borghetti – Luoghi interminati
È una poesia del quotidiano quella di Roberto Borghetti, una lirica che racconta geometrie “scomposte”, luoghi “non conclusi”, situazioni di vita congelate in scarni fotogrammi. La dimensione spaziale che il poeta tratteggia si sfalda, diventa geometria imprecisa, per la quale non vige alcuna regola oggettiva. In questa prospettiva i millimetri della poesia “Prigioni”, che dovrebbero essere unità di misura, precisa, non modificabile “si allungano / sino a perdersi all’orizzonte” (p.1). Il luogo smarrisce improvvisamente il suo carattere geometrico, finito: gli angoli divengono “coagulazione di punti” (p.1), le angolazioni alle pareti divengono “imperfette” (p. 1). Il linguaggio è scarno, essenziale; le immagini che Borghetti crea traggono visespressiva dall’accostamento di campi semantici differenti (“indossare l’estate”, “il mentire dei dormiveglia”) e dall’utilizzo di concetti antitetici (“nello slargo in cui tutto si stringe”, “traguardare angolazioni imperfette”, “calendari per dissolvere scadenze”). Il poeta cerca una possibile via di fuga necessaria per l’uomo che rischia di perdere la propria identità rimanendo “incatramato ad infiniti millimetri” (p. 1); questo varco di montaliana memoria è rappresentato dalla ricerca della luce, dalla necessità di creare una o più aperture verso l’esterno: “cerco quelle finestre che non vedo, / ancora chiuse per ingannare / eternamente la luce” (p.1), “vorrei aprire nuove luci nei muri, finestre / da cui assistere alla fine del mondo” (p. 3), “scardina pure l’accesso estremo, troverai cuniculi…” (p. 3). In questo contesto di ricerca diventa imprenscindibile bisogno poetico elencare, cercare un ordine, dare un nome alle cose: “il mattino è nuovamente quaresima, devo tornare all’ordine: / abbottonarmi, avere voce, i figli su vari pianeti / dare un nome alle cose” (p. 3). L’uso dell’asindeto rende incalzante il ritmo e risponde appieno a questa necessità: “allungare le mani, ribaltare scaffali / il fatto per cui siamo, uccidere, amare” (p. 1), “ho fretta d’uscire, fugare mete / scollinare col bastone le soglie…” (p. 2), “i cappotti nell’armadio, tu seduta / ad aspettare il fine ciclo del risciacquo / un probabile sole fuori ad asciugare” (p. 2).
Valentina Merlini
Urban trailer
Non c’è nulla da dire, se non di inverni miti
dentro il baule su cui siedo
per guardare fuori
oltre le traiettorie
le idee si cancellano dai muri a stento
s’allertano nuove difese sui volti del vicinato.
Dal cesto di vimini, tentazioni alla rinfusa
indosso l’estate per l’ultima volta
ho fretta d’uscire, fugare mete
scollinare col bastone le soglie finché
i ciechi vi depositeranno residui di luce
e più non saper tornare.
Sorpreso come sempre
a frugare tra la biancheria sporca
le macchie restano, dei lenzuoli le pieghe
il mentire dei dormiveglia anche nel sonno.
Sarebbe stato meglio chiudersi sotto chiave:
i cappotti nell’armadio, tu seduta
ad aspettare il fine ciclo del risciacquo
un probabile sole fuori ad asciugare.
E poi è lì che s’esaurisce il piano sequenza:
in fondo in un letto d’ospedale, nello scuro
d’un ostello fuori mano
ancora i piedi nudi mi sopravvivono.
Andrea Lorenzoni – Silloge senza titolo
Quello apprestato da Andrea Lorenzoni è un ingegnoso dispositivo semiotico volto a incrinare regole di connessione sintattica e a sovvertire relazioni di pertinenza semantica di intere aree discorsive senza distruggerne, per altro, una plausibile giustificazione fondante. Ne deriva la raffinata rappresentazione di una soggettività lirica elaborata attraverso una sorta di deformazione prospettica del piano testuale, che sollecita l’interprete a una ricezione in grado di conciliare un lessico selezionato con scientifica precisione (alla fonda, cassa armonica, sgruma, pedagogista, preconscia, sanguine, serotonina), spesso letterariamente consacrato (scroscia, vacanza, verzura, deflagra), con le diverse forme di antropomorfizzazione («La sigaretta fuma»), di analogia apposizionale («Malva il sangue nelle vene») e predicativa («Il fumo […] sgruma il pensiero […] sorbe il percorso»), di mise en abyme («genitore di me»), di enallage («luce / che serotonina viene»; «svengo di me / il padre») e di antinomia («Non dimenticare […] dimenticali invece») che caratterizzano, con calibrata ostinazione, questo particolare linguaggio. Nella silloge presentata dal ventiseienne Andrea Lorenzoni (la più interessante tra quelle di autori under 30 a noi pervenute), questa Giuria riconosce l’esito di un esercizio condotto con autentico rigore e con l’intelligenza, felicemente precoce, degli strumenti che pertengono al “mestiere di poeta”.
Francesco Carbognin
*
Non dimenticare luna e mare
dimenticali invece
se ti senti felice, uguale
ma misurane il rischio
nei quarti di luna, nella luce
che serotonina viene, tutta parole
che recano l’incanto del bello
logica inconscia, affonda
desidera, schiocchi cellulosa
che TV irretisce e capisci
solo se due anni non guardi
ma dialoga, svengo di me
il padre che ti ha creduta
languida di odori, adesso.
Camilla Emili – Silloge senza titolo
Sono una ex bella: appare subito chiara l’ironia quale cifra essenziale della Emili che, declinandola su toni aciduli, ne definisce la chiave. Non si tratta di risentimento, ché mai il soggetto si pretende intatto o getta sguardi dall’alto (ho trovato / una perla preziosa / in fondo ad un cassetto. / Gomma masticata / tra polvere e forcine. …ho solo continuato / a vivere d’essenza. / Ho solo indovinato). Piuttosto, l’intonazione corrosiva asseconda l’opposizione di termini da cui origina ogni movimento ironico. Camilla Emili dispone la propria materia lungo i bracci di un chiasmo trascendentale, al cui centro si stanzia un io lirico osteso ed abbassato (Io sono una massaia). Di lì passa un primo asse oppositivo, traducendo spazialmente il contrasto io/voi in luoghi esistenziali non più che fisici (Verran rifiuti tossici, / soot e nerofumo… poi danno aria ai mantici / sul tempo che piove sempre, sul nero della cronaca… elimino pietosa i vostri scarti), per bilanci dal saldo problematico (E adesso siamo pari / e lo sottolineate). L’altro contrasto verte su temporalità sfasate o senza riscatto che dettano ripiegamenti malinconici (Racimolo schegge / di smessi natali / in fondo all’armadio), denunciano l’altro-altrove come deiezione (Nella migliore delle ipotesi / domani ricominciano), sbarrano orizzonti (e dopo se ne vanno, / come ci sono stati). Ma se l’ironia è sempre metafisica, qui essa non libera il soggetto all’assoluto della Possibilità (come nella menzogna dei Romantici tedeschi), magari sino a vertigini nichilistiche; piuttosto, lo riduce al grado zero esaurendo con ciò stesso il proprio moto oppositivo (Io sono la massaia / e voi gli assenti). Ovvero: del Nulla come nullità.
Luca Pasello
La massaia
Granelli silicei
di sabbia di Caorle,
scaglie di pelle,
forfora, pelucchi,
cellule morte,
feci d’acaro,
capelli diritti e sottili.
Lavo le tracce dei viventi.
Qua scorre intanto
il tempo acuto
delle giostre al parcheggio.
Del caldo di vischio.
Delle fioriture prepotenti
del sambuco merlettato.
La contraddizione
tra i corimbi nuovi verdeacerbi
e lo schiaffo che ne viene,
già sopra le righe,
un poco andato.
Sterilizzo il bucato,
stendo veli,
elimino pietosa
i vostri scarti.
Le scorie dei passaggi
in corridoio.
Il fiato delle risa
sullo specchio.
Io sono una massaia
e voi gli assenti.