Primo classificato
Giovanni Caso – Se per poco mi ascolti (Ibiskos, 2007)
La lirica di Giovanni Caso si distingue per l’intelligente gestione della componente metrico-ritmica, che risente, soprattutto, della lezione di Eugenio Montale. Eloquente, a questo riguardo, risulta l’organizzazione di un “narrato” (dato che di una serie di “racconti dell’animo” e di “memorie” si tratta, nel caso specifico) in forme tradizionalmente liriche (quali sono gli endecasillabi e i novenari, di ascendenza montaliana, utilizzati da Giovanni Caso: tipico l’endecasillabo di 2a, 6a e 10a «nel grùmo d’un dolòre, come il sàlice / che pòrge le sue bràccia al vento ignòto»). Nei singoli testi ogni strofa si presenta, di norma, chiusa da un verso breve formante un endecasillabo a gradino con il verso iniziale della successiva, alla maniera di Giorgio Caproni («del tempo. // Dentro è l’erba dell’attesa»), quasi a ribadire, leopardianamente, che la totalità del “discorso” in cui si trova impegnato l’“io” lirico di Se per poco mi ascolti − così come la sua “durata” interiore, riflessiva − coincide, in ultima analisi, con l’interminabile modulazione del “canto”: di una “memoria musicale”, ciclica − e, dunque, eminentemente “lirica” − prima ancora che esistenziale o storica.
Francesco Carbognin
Secondo classificato
Benito Galilea – Identità spogliata (Rhegium Julii, 2007)
Il discorso lirico di Benito Galilea si dispiega in testi caratterizzati, sotto il profilo metrico, dal succedersi di misure canoniche entro moduli versali tendenti a tracimare dai limiti dell’endecasillabo, per via di una sapiente attitudine sperimentale in grado di associare armonicamente, nell’ambito di un unico verso, porzioni testuali di diversa misura («Ma non durerà che una notte [= 9 sillabe] questo dubbio, [= 4] / una notte soltanto, perché all’alba [= 11] giungeranno [= 4]»). Ne risultano, nei casi più interessanti, particolari effetti di “sfasatura” tra la lunghezza effettiva di ogni verso e l’endecasillabo (il novenario, il settenario) in esso contenuto: effetti che contribuiscono, in concomitanza con l’acceso realismo connotante il lessico impiegato da Galilea, all’elaborazione in senso narrativo di una materia intensamente lirica. L’esito più coerente di questi procedimenti è riscontrabile nei luoghi in cui le metafore − che si distinguono per la densità “materica” delle immagini impiegate − si dipanano narrativamente di verso in verso, dando luogo a blocchi strofici saturi di “racconto” e di “concetto”, simili ad allegorie («I vecchi non guardano il mare / ma lo sentono rispirare nel gorgo / dei pensieri o più in basso dove le sponde / si riallacciano ai rigagnoli del cuore.»).
Francesco Carbognin
Terzo classificato (ex aequo)
Nono Memè – Pontica Verba. Elegie dall’esilio (Altrimedia, 2008)
L’ex aequo conferito inerisce all’originalità e all’intensità della riflessione parimenti compiuta da Renzo Piccoli e Nono Memè sul tema della strutturazione del libro di poesia: di un libro, cioè, intrinsecamente conchiuso di liriche disposte entro una rigida architettura concettuale. Nel primo caso, Nono Memè (pseudonimo rivelatore di una frantumazione soggettiva riconducibile a una delle più importanti tematiche filosofiche del Novecento) si presenta, addirittura (atteggiandosi a novello Pessoa), come il fantomatico curatore di una “autoantologia” composta da nove sezioni di testi di altrettanti poeti (il decimo, infatti, è segnalato come “anonimo”). A ben vedere, però, i testi ricondotti ai diversi eteronimi sono stilisticamente uniformi, tanto per i modelli chiamati in causa nell’ambito delle deformazioni parodiche delle parole (si tratta di poeti degli anni ’60-’70, in primis, tra i quali sembra spiccare la voce di Amelia Rosselli), quanto per i più ricorrenti tratti formali connotanti le liriche nel loro complesso: un tratto petrarchista, questo particolare “monostilismo”, che se contribuisce a rafforzare l’illusione di compiutezza strutturale di Pontica Verba, ne inficia precisamente l’alibi macrotestuale dell’“antologia” di testi di autori diversi.
Francesco Carbognin
Terzo classificato (ex aequo)
Renzo Piccoli – Magnitudine apparente (Sovera Multimedia, 2004)
Relativamente al secondo testo, Magnitudine apparente, l’assetto strutturale di massima è garantito dal ricorso alla metafora globale del cosmo: si susseguono, così, nel libro, poesie dai titoli coincidenti con nomi di stelle e di costellazioni (forse riprendendo un’idea del Vittorio Sereni di Stella variabile, mediata dalle riflessioni di Andrea Zanzotto). Ma, per una felice contraddizione, entro i singoli testi si squaderna un’escursione lessicale tematicamente (psicologicamente) disorientante, tale da mimare quella stessa dispersione cosmica che il progetto rigorosamente unitario del libro (attraverso il ricorso estensivo a titoli e metafore astrali) si sforza, concettualmente, di eludere, lirica dopo lirica. La divaricazione degli esiti formali rappresentati da queste due opere si alimenta della medesima oltranza con cui Piccoli e Memè conducono il loro esperimento, ricorrendo entrambi, con pari intelligenza, alle risorse offerte dall’ironia. In definitiva, ad accomunare formalmente questi due «tentativi di esperienza poetica» è l’implicito, paradossale riconoscimento dell’impossibilità di costruire, in un tempo come il nostro, un libro di poesie rigorosamente e coerentemente (ideologicamente) unitario.
Francesco Carbognin