Edizione 2008 – Poesia Inedita

Primo classificato
Franca Mancinelli – Silloge senza titolo

Le cinque poesie che compongono la silloge di Franca Mancinelli hanno come denominatore comune una scenografia costituita da interni domestici, vero e proprio trait d’union tra un testo e l’altro. Ma non solo: è proprio la circoscrizione dell’ambiente di partenza che fa da pretesto e permette l’apertura a un immaginario che ribalta immediatamente la questione, fino a sfiorare in  alcuni momenti derive espressioniste. Questa attitudine si riflette nella stesura testuale, strutturata attorno al senso della misura: l’andamento metrico richiama le forme canoniche, tanto in modo esplicito quanto celato nella segmentazione data da una sintassi orientata verso la realizzazione di un discorso. Un effetto d’insieme proporzionato, il porsi un limite e saperlo rispettare.

Luca Rizzatello

  

  

*
tutto quello che sono è una finestra
il peso che avevo l’ha raccolto
in sacchi scuri l’alba.
Anche l’asfalto spazzolato
e umido si è aperto,
con l’albero del parco che comincia
a tradurre le nuvole della terra.

Ora ogni movimento oltre la stanza
può trasportarti.
Camminano le ruote sulla strada
e si fermano con gli occhi tuoi a guardare
il mordersi dei cani che si trovano;
e luminoso il traffico rallenta
perché il cappello rovesciato
contenga una moneta.

  

 

Secondo classificato

Michele Naletto – Stagioni 

Stagioni di Michele Naletto si inserisce a pieno titolo nello spirito della parola innamorata; la relativa brevità delle composizioni è necessitata dalla cura spesa nei confronti della selezione lessicale: il tono generale non oltrepassa mai la soglia di una conversazione confidenziale che ha per motore primo una tensione verso la resa sonora, mai disancorata dal senso e mai orientata al solipsismo sterile. Il presupporre continuamente un interlocutore, sia esso dentro o fuori la pagina, offre un peso e un corpo a costruzioni che altrimenti rischierebbero la prevedibilità della maniera; così non è, e il vitalismo sottotraccia, l’attenzione per gli spazi pieni e per gli spazi vuoti, fanno scampare il pericolo.

Luca Rizzatello

 

 

Calicanto
(hairèisthai)

Eretico quel che basta
da rinnegare il bacio molle,
a te mi accoppio
calicanto;
ora s’apre vasta
la nudità del gesto
ed accarezzo
gli ossuti rami
che sul finire di gennaio
respirano richiami.

 

 

Terzo classificato

Gennaro Grieco – Indizi per il giusto riposo

Il primo indizio offerto dalla silloge di Gennaro Greco risiede nell’epigrafe di apertura: chi non volta le spalle al mondo si disonora. Questo atteggiamento di disprezzo per il mondo, leggendo le poesie presentate, è di certo un dato di fatto, ma lo è soltanto parzialmente; questo perché i mondi rappresentati sono due. Il primo è il paesaggio, che si delinea poco per volta, per illuminazioni che di rado superano i due versi; il tratto è sicuro e prosodicamente solido, legato all’impressione oggettuale, costruito in levare. Il secondo è il sistema inteso come mero perseguimento di interessi economici, e conseguentemente il linguaggio e la sintassi mutano virando verso l’astrazione dei tecnicismi e della critica sociale.

Luca Rizzatello

 

 

(bocca dell’aria)

            Il primo indizio è un dosso
poco oltre il rondò che dispone
l’ultimo carname dal lungo corso.
È un varco che scende fino alla curva
del venditore di arance, uno che
lì staziona tutto l’anno, che ha polso
da farmacista o fornitori esotici
e uno strapunto bell’e pronto
nel furgone di quarta mano:
sconosciuto all’ufficio delle tasse,
dicono sia figlio della globalizzazione,
di un mondo che con le distanze
abolisce anche le stagioni.

A sinistra, un ammasso di letame,
fili di grano da sarchiare e in fondo
Torino con i suoi ultimi rumori,
con i suoi fiati bassi nelle fabbriche
dimenticate dai giornali – e il sangue
indotto da vite perse in rapina:
oggi è il turno del tabaccaio.

A destra – io la chiamo bocca dell’aria –
si apre infine la valle: senti il fresco
delle nuvole, fiati d’erbe…Ed è
poca la strada per casa mia, c’è
un bosco e la terra che dalla proda
sale su in cielo e si fa argine e soglia…
Venti metri e vado a funghi, in ciabatte:

un sobrio impulso che mi dà respiro.

 

 

Premio Under 30

Alessandra Conte – Breviario di novembre

Vulnerati sumus ingredientes mundum – dall’ingresso nel mondo origina la nostra ferita, scriveva Bernardo di Chiaravalle, dettando così (con un millennio d’anticipo) l’itinerario elettivo della mistica contemporanea. E su tale sentiero, infatti, oggi Fernando Rielo ci incammina: Alcuna cosa mai è stata mia. / Men che meno la mia carne: / solo sussiste qui, dove patisco. Si intende che, accanto ad altre, più celebrate modalità di contemplazione del sacro (l’Empireo ineffabile di Dante, ma ancor più le fogorazioni dell’abbacinata Hildegarde von Bingen, pendant visionario della metafisica della luce, idea e spirito in trionfo sull’opacità della carne) – accanto, si diceva, a tale via maestra, il Medio Evo sa additarci altri percorsi, che proprio negli infimi gradi della creaturalità offrono dimora allo sguardo contemplante. Evangelicamente, peraltro, o secondo certi modi francescani: Stabat mater dolorosa / iuxta crucem, proprio lì cioè, dove un corpo che ripugna a vedersi versa sangue ed umori (o signore dai polsi rotti… – scrive Alessandra Conte – ti ho visto nelle ferite in bocca / a sagoma del dente che le ha intagliate). Tale movimento, di uno sguardo interiore ricettivo, non proiettivo; non motore di un ascensus in Deum (risalita alle vertiginose altezze del divino), bensì meta di uno scandaloso avvilimento del sacro, a precipizio nel dolore, ispira forse Breviario di Novembre, l’unitaria silloge di Alessandra Conte. La sua poesia sembrerebbe davvero calcare quell’itinerario a doppia percorrenza, per cui il divino si abbassa ed è propellente allo sguardo che gli salga incontro. Sennonché il sentiero è piano, non ascende per nulla, anzi si aggira nell’intorno di un incontro mancato (ti lodo, signore, per ovunque nessun luogo che ti dai). Non incontra alcuna alterità, la parola della Conte, pone bensì l’unica possibile presenza, quella di un corpo-carne, del suo esserci doloroso: Ovunque ti vedo, signore, e ti lodo, / nell’ovunque del corpo. Sacri sono sguardo e parola, abitando il deserto di un tempo / scaduto in giorni e pagine; sacro (sulla croce tuttavia, o accanto ad essa, snaturato dall’esperienza del patire) è solo un io lirico che si cerca entro il tragitto circolare della propria esistenza (per cui la suora che prega dolore, che contempla lo scialo dei giorni, nutrita di memoria Rimuorevulnerati sumus ingredientes mundum, diceva Bernardo). E si schiude così un terzo sguardo, che fa dell’intero percorso, apparentemente mistico, l’articolata metafora di un dissimulato canzoniere amoroso, dove la voce poetante è madre donna bambina amante, lo sguardo sul patimento è cura e amplesso, e il tempo si dissipa tra il delicato sentire di un cuore prepubere ma già anelante (e lei bambina mangia dadi, / ride, guarda crescere la camomilla…  ma poi ti fascio forte, / dio piccolo, / mosca senza un’ala  – o, retrospettivamente, Rimuore, si chiama femmina / un’ultima volta) e l’attuale invocazione-profferta: Le canto, le lodi, / come canto lascivo e sguattero… chiamami terra / alla terra / e sepoltomi il corpo amami / reliquia santa pietra tombale, in un abbraccio già postumo – dunque indefinitamente rinviato. Non visione, perciò, ma parola che invoca e ricerca: la sostanza del Breviario  è erotica, la sua è una voce di donna. E il termine d’approdo di quel viaggio nel dolore, il profilo che s’intravede non ha un dio per oggetto, né per soggetto una santa adorante, che Breviario di novembre è il canto di Eva – di un inizio nella carne come colpa ed infinita lontananza, ovvero di un desiderio che solo il dolore può compiere. Perché è entrando nel mondo che riceviamo l’estrema ferita.

Luca Pasello

 

 

*

la suora bambola antica
si infila perle di pepe
nelle mani a sgranare il tempo
scaduto in giorni e pagine.
Alitano le sue memorie
tra l’aorta e il naso
nei quaderni bianchi
come le morti,
e lei bambina mangia dadi,
ride, guarda crescere la camomilla.
Rimuore, si chiama femmina
un’ultima volta.